Principum individuationis

di Giovanni M. Accame

L’immagine si riferisce a una cosa, l’oggetto rimanda all’immagine e l’iscrizione esprime un concetto. Ma questo discorso non è transitabile nei due sensi o, almeno, ritornando non transiteremmo più da dove siamo venuti, perché il concetto non si ritrova nella scrittura, l’immagine a cui l’oggetto rimandava non riesce più a ricostituirne la concretezza oggettuale e la cosa indicata dall’immagine non può essere ora solamente un’immagine. L’itinerario non più transitabile infatti è quello compiuto dall’artista, la lettura di un’opera non può mai riprodurne la fattura.

È possibile individuare i diversi passaggi, i riferimenti, si possono definire molti fattori pertinenti alla formazione come alle finalità, ma di ciò che compiutamente ci si mostra non si può dire come se ancora non ci si fosse mostrato. L’esperienza di un fenomeno cioè non può prescindere dal fenomeno stesso che l’ha originata.

Il senso che l’opera viene ad acquistare nel momento in cui ci appare è l’aspetto dominante da cui non ci si sottrae. Per questo ciò che più mi interessa e che mi sembra di maggior rilievo in questi lavori è l’emergere del senso della sollecitazione compiuta sui sensi. Come, cioè, al di là del primo impatto con i suoi riferimenti espliciti, il vero significato dell’opera sia costituito dall’essere un’opera sui sensi.

L’aspetto letterario, fatto di riferimenti colti, di spunti storici, di improvvise allusioni al contemporaneo, è quanto ci appare dell’ordine dichiarato, ma ciò che qui si dice non è ciò che accade, l’accadimento è la percezione del fenomeno, la lettura dell’opera. Il senso nasce da questo processo e quindi non c’è storia che io possa conoscere se non quella che vivo. Il resto lo posso apprendere, esserne informato. Così recepisco le informazioni che questi lavori mi danno su cose e fatti che non sono qui e non accadono ora, ma il loro senso mi è dato raggiungerlo solo nel momento in cui gradatamente penetro nell’opera; allora tutto cessa di essere sospeso e di attendere, ogni cosa mi appare per ciò che è.

È l’opera infatti, nella sua fattura materiale, che predispone i meccanismi stessi della propria lettura e dunque il suo essere non potrà che coincidere con il suo accadere, quindi il suo essere per noi.

Le proprietà costitutive, che sono quanto dell’opera è sommerso, celato alla prima visione che si dirama in superficie, emergono prepotentemente quando l’aspetto di immagine diviene a tutti gli effetti una presenza, al come il fenomeno, l’opera ci appare. Al nostro percepire il percepibile. Al prodursi della forma e nel nostro riscontrarne le proprietà e i confini facendone concretamente esperienza.

 

Perché un’opera sui sensi? Perché il nodo da cui si diparte ogni altra significazione è nelle differenti categorie di strumenti espressivi usati e quindi nelle differenti pratiche d’indagine e modalità percettive che dovranno rilevarli. L’immagine disegnata, la presenza fisica del materiale, la parola scritta. Ed è in particolare l’inserto oggettuale a essere il perno problematico di questi lavori. La sua presenza infatti ponendosi tra un disegno e una scrittura altera la normale percezione di questi linguaggi e tende a portarli sul proprio campo sensoriale che è quello tattile.

È solo inizialmente o quando siamo ancora distanti da queste opere che anche lo stesso marmo “fa immagine”, ma poi lo spessore e le proprietà del materiale ci portano a sentire ciò che vediamo. L’esperienza tattile, legata prevalentemente al toccare e al relazionarsi con i corpi nello spazio, viene qui sollecitata dalla sola visione di un materiale di cui mentalmente avvertiamo la levigatezza, il peso, il freddo impatto della superficie, e di cui conosciamo diverse utilizzazioni. Che suscita in noi ricordi di oggetti, di edifici, di luoghi e di rapporti da noi avuti con cose e spazi.

Avviene a questo punto un fenomeno di inversione per cui il frammento oggettuale, che è l’elemento più concreto, fisicamente più consistente, appena viene percepito in tutta la sua pregnanza tende a sottrarsi ai propri limiti materiali, a divenire una presenza che debordando da sé si carica di tutto ciò che suscita e si identifica in ciò che procura sui nostri sensi; mentre le parti più lievi e concettuali, come il disegno e la parola scritta, acquistano una presenza che non ha più la funzione solo di rappresentare ma, appunto, di presentarsi.

Il disegno in modo particolare non è ora solo un riferimento, un mezzo di rimando ad altro, ma rivelandosi apertamente come imitazione, cessa l’inganno e propone la propria realtà. Apre un colloquio con ciò che rappresenta e se ne distingue, al tempo stesso entra in rapporto con la presenza oggettuale che gli è accanto e a cui è legato da una reciproca allusione. Anche per la scrittura ciò che esprime differisce dall’espressione, questa infatti suggerisce l’iscrizione incisa delle lapidi e quindi ancora un aspetto tattile della scrittura. Quello della parola che si separa da sé per farsi gesto, scalfendo una superficie e tornando così alla concretezza della materia, come concreto è il corpo nelle cui cavità ha avuto origine.

 

Ecco dunque che il tema ricorrente del lavoro di Omar Galliani, l’investigazione dell’arte sulla Storia dell’arte, si manifesta nella sua riposta ma più penetrante caratteristica, che consiste nello svelare la pratica repressiva che la Storia dell’arte compie sull’arte. La ricucitura di quanto si pone come incrinatura, la ricomposizione di quanto non vuole comporsi, la dotazione razionale di una logica anche a processi intuitivi che se ne distinguono, la narrazione di ciò che sfugge a ogni riduzione letteraria, la continua e mistificante imposizione di un ordine che appartiene a un altro linguaggio. È il mascheramento inevitabile che le parole compiono sulle cose, lo stravolgimento soffocante attuato da un linguaggio che voglia interferire e sovrapporsi a un altro.

Qui le immagini, i materiali, gli oggetti comunicano secondo la cadenza delle cose, si muovono nello spazio dei sensi, percorrendo vie che sono inaccessibili alla parola, alla costruzione del discorso.

L’opera dell’arte è accessibile solo direttamente, nel senso che è nella sua presenza, nell’apparirci, che ogni altro discorso si fa cultura e si arresta sulla soglia della conoscenza. La percezione dell’opera è prima di tutto la constatazione di qualche cosa che è altro da sé, in seguito è lettura effettuata con gli strumenti propri alla sua specifica struttura; da qui poi inizia il processo di significazione.

Il senso dell’opera però è quello scaturito dal riscontro della sua presenza, che garantisce e dell’esperienza e della specificità del linguaggio utilizzato. Dopo è possibile ogni altra elaborazione; mutano i significati, si costituisce una Storia che testimonia di ciò che è assente. Così arte e Storia dell’arte, due linguaggi non comunicanti che si incontrano senza trovarsi.

Uno di questi lavori vi allude prepotentemente: una grande ala è disegnata su un foglio direttamente fissato alla parete; di fronte, al suolo, scostata di un passo, una grossa scheggia di marmo. Solo qui, in presenza di questi due elementi che si fronteggiano, è possibile, in una sola volta, in un’unica fusione di spazio e tempo, conoscere il battito immenso dell’ala, la fissa immobilità della statua e precipitare poi nel quotidiano riallacciandosi alla tensione drammatica di un evento che vibra e si raggela nello spazio di un istante. Tra l’ala disegnata e il marmo, nessuna Storia, nessuna parola può penetrare: si testimonia l’esistenza di un mondo che non può essere detto.

 

* Da Le alternative del nuovo. Otto giovani artisti italiani, cat. mostra, Palazzo delle Esposizioni, Roma, 1979