Autointervista

di Omar Galliani

Inizierò parlandoti del disegno, visto che sto disegnando e tra poco raggiungerò il bordo della tavola.

Parto dal bordo per poi allargarmi al centro. L’allargamento è continuo, nel sovrapporsi del segno cerco di oscurare quella parte di luce bianca che è nel pioppo, nel vegetale stratificato, incollato, piallato.

Il disegno è un viaggio, sovrapporsi di segni, emozioni: scatenate, meditate, sognate.

La dilatazione è nel cuore. Oggi, in quest’opera di sei metri per cinque, un volto femminile è immobile al centro di una marea di matita.

La dilatazione è ovunque, dalla letteratura alla musica, nel cinema, nelle immagini del quotidiano.

La necessità di dilatare nasce dal viaggio, mi muovo tra l’ingigantimento delle cose e il desiderio del dettaglio infinitamente piccolo.

Quando lavoro con la matita sulle grandi tavole cerco un particolare, occhio, labbro, ciglia, un punto dell’epidermide che si perde nella sua stessa natura, uno sfumato fatto con migliaia di piccoli segni.

Penso all’inizio di questo viaggio e al progetto: più che a una mostra assomiglia a un segreto nel cassetto, appartiene più al sogno che alla realtà.

Era destino incontrare questo pioppo, queste matite.

Mi chiedevi di Leonardo, del disegno, di ciò che mi avvicina o allontana da questa impresa: mah?!…

Non è il desiderio o il confronto, non nel soggetto ma nella tensione, nell’attesa di due opere lontane, distanti nel tempo. Si contendono uno spazio abissale tra scrittura, musica, teatro, nell’arte in generale e nella vita.

Il disegno, la cosa che conosco meglio, è già nella mia tasca al mattino quando mi alzo, e mi accompagna nei viaggi,

La pittura non è diversa, la matita è già piena di colore, tramatura di luce cangiante, s’illumina, non è soltanto bianco e nero.

Leonardo ti parla del disegno, descrivendoti come la luce lavora i corpi attraverso la sedimentazione di punti che creano volumi, rotondità, prospettive, profondità, baratri, abissi.

Il mistero cresce all’ombra delle cose fisiche, celando nell’anatomia della natura il segreto che la scienza oggi ti svela.

Il disegno non si inventa, esiste da sempre, è origine, iniziazione. Pensa alle grotte di Altamira, ai graffiti egiziani, mesopotamici, maya, ai grandi disegni rupestri del deserto libico o sahariano… Le mie strade portano al deserto…

Ecco, il deserto, un luogo nel quale vorrei disegnare. Quando ti trovi davanti a tanta superficie (sono a circa due terzi del lavoro), è un po’ come trovarsi nel deserto, dove la natura è disossata, dove galleggiano pochi elementi riconoscibili.

Il deserto è simile, vi galleggiano forme pietrificate, levigate, polverizzate, soffiate.

Quando penso al disegno, penso alla mutevolezza.

Io lavoro con una matita FC 9b, grafite estratta dalla terra… geologia narrante, tutto dipende da come pensi una matita e da come la usi.

La matita può disegnare case, acquedotti, piante, montagne, animali, parole, sorrisi, pianti, sogni, bugie, verità che può rivelare o cancellare.

Il mondo degli uomini si allontana dalla natura o la modifica: tecnologia computerizzata, software, posta elettronica, sms, mms, il tasto, infiniti tasti.

Cosa resta della scrittura, della grafia, delle parole in corsivo, maiuscolo, minuscolo? Dei baffi a matita sulla Gioconda nelle parole crociate?

Il desiderio ossessivo del disegno è un’urgenza quotidiana.

È tardi! Quando sono in questo grande angar non vedo l’erba, il cielo, la terra, ciò che ho davanti è la mia tavola, non puoi perdere il controllo, non puoi distrarti, potresti cadere, sono sospeso su un trabattello a cinque metri dal pavimento.

Esiste oggi un’armonia del paesaggio per sopportare meglio questa fatica? Fuori piove, faccia a faccia, testa a testa tra me, lei (il soggetto) e la tavola, in un giardino zen o in una palestra di arti marziali.

Per tenere in piedi un disegno così bisogna disegnare in diagonale. Il mio disegno ha una cadenza ritmica e trasversale.

Tutti sappiamo quanto Leonardo indagasse la natura, dal giglio all’utero, dal cervello all’ala dell’angelo o alla colonna vertebrale, quindi alle immagini sacre, alle ibridazioni mistico-anatomiche, sempre sulla carta, nel contatto tra la punta d’argento e il centro del foglio.

Tra musica, dipinto, danza, il suo segno è diagonale; raramente il segno in Leonardo si intreccia, come nei disegni del Cinque-Seicento.

Il suo segno ci avvolge in una luce che con piccoli tocchi, con sottili linee, dona ai corpi forma, peso, leggerezza, armonia, luminosità, distanza, vicinanza.

Quasi un’anticipazione della videocamera digitale che userò tra un attimo per riprendere questo mio ultimo infinito disegno, tracciato narrativo del mio lavoro quotidiano.

E il tempo? Si parla sempre del tempo e di ciò che ci sta attorno, prima, oggi, domani. Non credo al tempo.

Rimangono o persistono atemporalità al di là del tempo?

L’economia ha caratterizzato l’evolversi e la fortuna della storia dell’arte d’Occidente. Ma al di là dei confini, delle geografie, dei sogni nel cassetto per ipertecnologie futuribili, sopravvive un’anomala nostalgia che ti avvicina e allontana nel tempo sottraendoti alla orizzontalità della storia per poi iniziarti alla verticalità dell’emozione.

Quando mi parli del disegno di Egon Schiele descrivi un disegno dove il dramma si traduce in emozione pura: carne, occhi, cuore, muscoli, vene.

Nel mio caso è come congelare l’emozione in un cristallo, sezione piramidale, accanimento sottile e minuzioso del dettaglio, sfaccettatura astratta e figurale dello stesso soggetto.

Il mio disegno non è un primato. È un grande quaderno di viaggio, diario aperto sulla quotidianità delle mie matite.

Dove e quando nasce? Tra colazioni all’alba, improvvise passioni, dolori, partenze e arrivi da aeroporti tra Oriente e Occidente, delusioni e risalite, guarigioni improvvise, lucide visioni o estasi estatiche.

Vorrei che questo libro si mantenesse lontano dal tempo.

Il disegno di Leonardo che vedi è lo studio dell’angelo per la Vergine delle Rocce, dipinta in due versioni, una a Londra, l’altra a Parigi.

Si cerca ancora di sapere quale sia la prima. Domanda oziosa. Nel guardarle ci si accorge che non c’è soluzione, alcune parti dell’una si sovrappongono all’altra e si allontanano.

Il volto androgino ti guarda. In questo sguardo che “guarda”, il disegno si guarda attorno, il disegno si compiace di esistere, il disegno abita il compiacimento del soggetto e gravita nella sfera dei molteplici soggetti guardati.

L’idea è di leggere questo disegno in tempo reale ripreso e trasmesso davanti al passaggio del pubblico nella stanza dove sarà collocata la tavola che sto disegnando. Tecnologie, confronto fra tempi e geografie impossibili.

Un sogno nel cassetto!

La storia dell’arte italiana? Dal Rinascimento alla contemporaneità? Tempo finito, tempo iniziato, paura di un confronto, perdita di identità? Le radici culturali? Omologazione? Standardizzazione globalizzata?

Pochi veri musei d’arte contemporanea in Italia e tanti artisti che si guardano vicendevolmente e digeriscono quello che si fa oggi a Detroit, Pechino, Berlino, New York, Milano, Londra, Hong Kong senza porsi domande. Artisti esiliati sull’altare della globalizzazione dei linguaggi sempre “contemporanei per forza”! Dove inizia e finisce la contemporaneità? Nei magazine dimenticati sui sedili del metrò, tra televisori sempre più grandi, o frigoriferi ultrasottili? In un propulsore aereo, o in una casa disegnata al pc e mai realizzata?

Desiderio di un disegno originario, Pisanello, Beuys, Leonardo, Rothko!!!

“Coltivo ciò che vedo uscendo dai parametri e dai perimetri”. Non esiste prima o dopo.

Il mio Grande disegno italiano è senz’altro una esagerazione vanagloriosa, narcisistica, la tengo stretta tra le mie gambe e quelle di Leonardo, oltraggioso progetto iniziato e mai finito. Tutto qui. Dipenderà dalla tenuta del tempo (…anche meteo) e da come le cose “ci/si” racconteranno.

Il disegno per oggi finisce qui, domani andrà avanti. È la prima di una serie di tavole di pioppo, betulla. Un albero, verticalità protesa verso il sole, la luce, il cielo, si incontra con la geologia minerale della grafite, le vene della terra. Lo sapevi che geologicamente la grafite è un giovane diamante?

Uso un minerale che dall’oscurità viaggia verso la luce, la più brillante di tutte, il diamante, pura e assoluta luminosità.

La unirò alla solarità dell’albero! Dalla verticalità del cielo alla profondità della terra! Sarà un “geo-disegno”: alchimia, conoscenza, destino, bianco, nero, luce, tenebre, caldo, freddo, tra matita e legno, rigenerazione, trasformazione, sublimazione.

Mi chiedi se il disegno insegna qualcosa? A stare in piedi sette ore al giorno su un trabattello a cinque metri d’altezza e non sentire più le gambe, le braccia. Non ci vedo più! È buio! Non so come farò ad andare avanti…

La tavola è un deserto, il mio deserto.

Oggi è il due novembre, le due e trenta del pomeriggio, quest’opera sarà inaugurata il sei dicembre, tra un mese. Sarà finita? Sto atterrando! Aggiungerò qualcosa, se ci sarà da aggiungere, vado avanti.

Non amo gli esotismi, le simbologie alchemiche, o le facili scorciatoie mistiche, per poi dire o arrivare dove?

Non amo correre su strade tracciate da altri. Ho cercato una strada parallela, non coincidente con le attese del mercato dell’arte. Fuggire le categorie! Non appartenere a uno stile ma alla qualità e alla tessitura più alta della prossima opera.

Il mondo è saturo di parole, ma manca la lingua, il linguaggio dell’opera.

Mi interessano quegli artisti che hanno fulminato le tappe con dieci opere: io ne ho fatte di più!

Non sarò più fra questi: ho realizzato molte opere in un’unica opera. Un volto, una donna, a volte anche noiosa, tediosa, vanitosa… Ho scelto una lei per questa inquietudine grande come la facciata di una casa.

Ossessione? L’arte è ossessione? Una condizione narcisistico-ossessiva che trascende cibo, sesso, respiro, suono… La mia veglia è appena iniziata.

 

Corte Tegge, novembre 2005